Manduria. Le due donne non erano invisibili: la loro storia e il fragile equilibrio dell’assistenza

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La notizia della morte di Assunta Mele, 81 anni, trovata senza vita nella sua abitazione di via Maruggio, ha scosso la comunità.

Accanto a lei, per almeno cinque giorni, la figlia affetta da disturbi del comportamento, incapace di comprendere la tragedia. Una vicenda che ha colpito l’opinione pubblica e sollevato interrogativi dolorosi: “Com’è potuto accadere? Erano davvero sole?”

La risposta, sorprendentemente, è no. Le due donne non erano abbandonate. Non erano invisibili.

Il nucleo familiare composto dalla sig.ra in questione e da sua figlia – come ha affermato il responsabile dell’Ufficio a cui la nostra redazione si è rivolta per chiedere chiarimenti – era conosciuto e seguito da diversi mesi dai Servizi Sociali del Comune di Manduria, che hanno operato le verifiche prescritte e fornito l’assistenza di base prevista dalla legge con la collaborazione, ove necessario, di altri enti al fine di risolvere le problematiche di volta in volta presentatesi.
La situazione generale del nucleo familiare si presentava non critica e tale da non arrecare nocumento a terze persone, peraltro le due signore, ed in particolare la deceduta, si dimostravano interattive e collaborative durante le visite degli assistenti sociali incaricati dall’Ente.

Non c’è stata indifferenza. C’è stato un interessamento costante, nel rispetto della loro autonomia e della dignità familiare. Ma qualcosa, evidentemente, non ha funzionato.

La vicenda di Assunta Mele è diversa da altre storie di solitudine e abbandono. È una storia di fragilità, di dolore stratificato nel tempo. Nel 1984, la famiglia fu colpita da due lutti devastanti: la morte del figlio in un incidente stradale e, pochi mesi dopo, quella del marito, maresciallo dei carabinieri. Da allora, madre e figlia hanno vissuto insieme, segnate da un dolore che ha lasciato cicatrici profonde.
La figlia, in particolare, è diventata nel tempo una figura nota nel quartiere, spesso vista sostare davanti all’abitazione a piedi nudi con addosso un lenzuolo bianco. Una presenza che non passava inosservata, ma che forse non è mai stata davvero compresa.

L’autopsia, disposta dal magistrato Filomena Di Tursi, chiarirà le cause della morte dell’anziana che potrebbe essere legata al forte caldo di questi giorni. Intanto, la figlia è ricoverata in ospedale, dove si stanno avviando le pratiche per garantirle un’assistenza adeguata.

Ma il punto non è solo cosa sia successo. È perché e cosa fare perché non accada più.
Secondo il Rapporto ISTAT 2025, quasi il 40% degli over 75 in Italia vive da solo. Le famiglie sono sempre più piccole, i giovani emigrano, e la struttura tradizionale di sostegno intergenerazionale si sta sgretolando. L’Italia è uno dei Paesi più vecchi d’Europa, con oltre 14,5 milioni di over 65 e un numero crescente di persone non autosufficienti.
La solitudine non è solo una condizione emotiva: è un fattore di rischio per la salute mentale e fisica, e può trasformarsi in una trappola silenziosa.
La figlia di Assunta, pur seguita, viveva evidentemente in una condizione di isolamento cognitivo. La sua incapacità di chiedere aiuto dopo la morte della madre non è un atto di negligenza, ma il sintomo di una fragilità che richiede strumenti diversi, più profondi, più integrati.

Questa tragedia non è frutto di abbandono, ma di un sistema che, pur presente, non sempre riesce a cogliere i segnali più sottili. Serve una rete più fitta, più umana, più quotidiana.
Le istituzioni dovrebbero probabilmente rafforzare il monitoraggio attivo, soprattutto nei casi di doppia fragilità.
Le comunità dovrebbero riscoprire il valore del vicinato: chiedersi “perché non vedo più la signora accanto?” può salvare una vita. Come è accaduto per la figlia dell’anziana.

Assunta Mele non era invisibile. Era una madre, una donna che ha affrontato il dolore con dignità. La sua morte ci lascia un compito: non voltare lo sguardo. Non accontentarci di sapere che “qualcuno se ne occupava”. Perché a volte, anche quando c’è qualcuno, non basta.
E allora, più che chiederci “chi ha sbagliato?”, forse dovremmo chiederci: “Cosa possiamo fare, tutti, per non lasciare indietro nessuno?”