“Inclusione e di compartecipazione culturale”. Ne parliamo con Gabriella Bisci”
Gabriella Bisci è un’ingegnera biomedica, esperta di Ergonomia e di User Experience, appassionata di arte e architettura e promotrice della formazione continua e della diffusione critica dei processi culturali. Da questo insieme di sfaccettature nasce il suo libro, “Inclusione e compartecipazione culturali”. L’ho incontrata poco tempo fa e abbiamo chiacchierato di cultura offerta culturale, di promozione culturale e di inclusione.
Gabriella, grazie per questa intervista. La mia prima domanda è: su che piano si pone la stesura di questo libro, nell’insieme degli aspetti che caratterizzano la tua vita?
La pubblicazione di questo saggio rappresenta un risultato inaspettato e non programmato che si pone sul piano della mia maturazione personale, resa possibile dall’aver seguito i corsi di Comunicazione Empatica ed Efficace di Ermelinda Gulisano, autrice della Prefazione e della revisione del Capitolo 4 che è dedicato proprio alla Comunicazione Empatica. Il testo risulta, infatti, dall’integrazione delle mie competenze tecniche in Ergonomia e in User Experience, con le mie conoscenze di più recente acquisizione in Comunicazione Empatica e con il mio interesse personale per l’arte e per l’architettura: da quest’ultimo aspetto deriva la considerazione del contesto culturale nell’intera trattazione che è applicabile, con i necessari adattamenti, a qualunque altro contesto in cui si creino relazioni umane (quale l’ambito familiare, lavorativo, associativo, sportivo, amicale o affettivo in generale).
«Tu sei capace di creare un magnifico bouquet a partire da molti fiori diversi » mi diceva Ermelinda, man mano che procedevo con la scrittura del testo, traducendo in parole, schemi, tabelle, immagini e definizioni un gran numero di riflessioni. È una definizione molto delicata e poetica del mio approccio olistico che mi permette di individuare connessioni e punti di contatto non evidenti tra aspetti apparentemente eterogenei.
Vorrei analizzare diverse parole chiave che userei per sintetizzare questo libro per aiutare i nostri lettori a entrare gradualmente nel saggio: inizio con “inclusione”. Parliamo di inclusione quotidianamente, ma come si unisce davvero l’inclusione alla divulgazione culturale?
La divulgazione, in ambito culturale, è un ingrediente indispensabile per realizzare un processo inclusivo.
Utilizzando il termine “inclusione” (che non è quello che io prediligo) a ragione della sua diffusione nel linguaggio comune, dal mio punto di vista, l’attività divulgativa è necessaria purché sia finalizzata a ridurre la distanza (altro termine molto importante nel mio testo) tra la popolazione e le istituzioni culturali, superando i concetti di nicchie, esclusività, elitarietà. Assumere l’obiettivo della divulgazione, richiede un adattamento del linguaggio e degli strumenti da utilizzare, affinché essi possano agevolare il trasferimento di conoscenza e lo sviluppo di competenze anche attraverso il coinvolgimento emozionale e sensoriale di ogni persona, riconducendo la materia oggetto di divulgazione a esperienze più familiari.
In estrema sintesi, per unire l’inclusione alla divulgazione culturale, occorre il coinvolgimento diretto e continuo delle persone, nella maniera più ampia possibile.
Passiamo al secondo termine: “comunicare”. I mezzi di comunicazione si evolvono nel tempo, cambiano insieme a noi, che ci adattiamo a loro senza alcun dubbio. Cosa vuol dire per te “comunicare”?
Riprendo quanto scrive Ermelinda Gulisano nella Prefazione: «Il significato della comunicazione è dato dalla risposta che si ottiene»: comunicare vuol dire anche stabilire una relazione e comunicare efficacemente consiste, da un lato, nel riuscire a fare recepire il proprio messaggio in maniera del tutto allineata a quanto si vuole trasmettere e, dall’altro lato, nel saper adottare l’ascolto attivo per riuscire a comprendere le ragioni profonde di chi comunica con noi, attraverso qualsiasi canale e modalità.
I mezzi di comunicazione hanno una grande responsabilità nel gestire, cercando di ridurre al minimo il rischio di scarsa chiarezza e comprensibilità, aspetti quali le distorsioni e il fraintendimento del messaggio che si propongono di trasferire, oltre che ogni possibile manipolazione dei concetti e dei fatti. Come nell’attività di divulgazione, anche questo compito della comunicazione non può essere svolto senza tenere conto di chi siano le persone destinatarie del messaggio e richiede competenze specifiche, non scontate per figure professionali che operano nel settore culturale. Comunicare diventa così anche un mezzo per trasferire conoscenza all’interno di una società che muta incessantemente, richiedendo un continuo adattamento delle forme e delle modalità espressive, attraverso un dialogo costante e mai unidirezionale.
Uno degli aspetti centrali di questo saggio è sì la comunicazione, ma relegata principalmente all’ambiente culturale. L’offerta culturale è cambiata negli anni e soprattutto la modalità di diffusione. Probabilmente l’anno catartico è stato il 2020, quando le attività in presenza si sono adattate a nuovi termini; le fiere sono diventate virtuali, le presentazioni sono diventate dirette, i firmacopie sono diventati invio di etichette prestampate e firmate dall’autore. Quanto è destinata a cambiare ancora la promozione culturale negli anni, secondo te?
Se è necessario che la promozione e, in generale, la comunicazione relativa all’offerta culturale siano in continuo cambiamento, dovendo rivolgersi a una società che muta perennemente, in maniera più o meno veloce e più o meno diffusa, allora non si tratta di fare previsioni ma di tenere conto di questa evidenza e della necessità di rispondere alle istanze della società, più che di anticiparle.
Nella realtà odierna, tuttavia, più che a una risposta alle necessità della società, spesso si assiste a bisogni indotti e non sempre autentici (vedasi il ricorso a operazioni di marketing finalizzate alla vendita più che alla diffusione di conoscenza).
Inoltre, osservando la cosiddetta “ingestione culturale” (in riferimento al gran numero di pubblicazioni che avvengono ogni giorno) a cui sono sottoposte tutte le persone che leggono, ascoltano musica, guardano film, etc., si pone il tema della reale possibilità di promuovere un’elevata quantità di contenuti culturali, questione che è strettamente legata all’equilibrio da garantire con la qualità di quanto viene proposto: ciò che viene maggiormente promosso, letto, ascoltato, venduto corrisponde sempre ai contenuti
qualitativamente più validi? Oppure l’ampia varietà e l’immediata disponibilità dell’offerta culturale odierna sacrifica la qualità a favore di visibilità, vendite e ricavi economici? Al gran numero di contenuti culturali che vengono prodotti corrisponde una altrettanto ampia pluralità di voci e punti di vista, parimenti promossi e dibattuti? Credo che una delle principali sfide del futuro sia proprio la ricerca della modalità più efficace per garantire alla popolazione contenuti fondati su dati e su analisi critiche e che possano stimolare riflessioni approfondite, oltre a strumenti di pura evasione.
Questo cambiamento a cui siamo sottoposti noi del settore editoriale può essere un problema, anche in virtù dei nuovi mezzi che devono acquisire i lettori per stare al passo?
Io penso che ogni cambiamento possa essere negativo e problematico in presenza di forzature rispetto al vantaggio per le persone a cui è destinato un prodotto editoriale. Laddove si adottano modalità nuove o differenti rispetto a quelle precedenti per meglio soddisfare i bisogni delle persone a cui ci si rivolge, il riscontro atteso è positivo e valorizzante contenuti e processi. Al contrario, non ascoltare esigenze più o meno consapevoli di cambiamento implicherebbe un elevato rischio di scollamento, di incremento della distanza tra chi scrive o pubblica o produce e chi richiede quei contenuti o potrebbe beneficiarne.
Ancora una volta, applicare dei meccanismi dall’alto verso il basso (con un approccio top-down ) verso persone relegate a potenziali clienti aventi un ruolo spettatoriale invece che attivo, potrebbe rilevare una scarsa o debole visione per il futuro.
Le persone destinatarie di un servizio o di un prodotto devono necessariamente essere coinvolte direttamente e in ogni fase del processo di ideazione, progettazione, sviluppo e validazione; il vantaggio di un tale meccanismo sarà tale da annullare l’esigenza del “dover acquisire nuovi mezzi per stare al passo” perché i mezzi e i contenuti saranno stati sviluppati insieme, da chi li produce con chi li utilizzerà.
Un’altra parola chiave fondamentale è necessariamente “comunicazione empatica”. Perché parliamo di comunicazione unita all’empatia e come è legata alla promozione culturale una visione attenta di musei, esposizioni, eventi…?
La comunicazione empatica si caratterizza per la capacità di comprendere le ragioni profonde di chi si relaziona con noi, senza provare le stesse emozioni o condividere le stesse ragioni (che è la definizione di “simpatia”, concetto spesso sovrapposto a quello di “empatia”).
L’adozione di un approccio empatico consente, così, di stabilire una relazione positiva e costruttiva, evitando il conflitto. Non necessariamente, una buona o almeno accettabile qualità relazionale richiede di adottare lo stesso punto di vista o di avere opinioni del tutto allineate; in ogni caso, applicare le regole della negoziazione efficace è necessario per rispettare le varie posizioni.
In ambito culturale, adottare un approccio empatico nella comunicazione (orale, scritta, online) consentirebbe alla popolazione che interagisce con le istituzioni culturali i luoghi della cultura di comprendere meglio vincoli (tecnici, di risorse, di fattibilità, etc.) e limiti che chi gestisce o lavora per tali istituzioni luoghi deve rispettare; dall’altra parte, permetterebbe a chi opera internamente alle istituzioni culturali di comprendere meglio le necessità delle persone e di adattare l’offerta culturale in modo più adeguato a soddisfare tali bisogni. In questo modo, ogni interazione tra la popolazione e le istituzioni culturali offrirebbe opportunità di miglioramento continuo e di sviluppo più integrato della persona e della società di cui fa parte.
Poi, parliamo di “digitalizzazione”. Tutto è digitale, tutto è mutabile. Quali sono i pro e i contro?
Nel mio testo faccio riferimento alla digitalizzazione precisando che non si tratta di una modalità alternativa ma complementare e potenziante rispetto a quella non-digitale per accedere al patrimonio culturale. In senso generale, la digitalizzazione è uno strumento di democratizzazione culturale che potrebbe essere sfruttato per ridurre le disparità territoriali: perché una persona che vive in un luogo dalla limitata offerta culturale non dovrebbe accedere a una collezione o a qualunque altro contenuto culturale che sia disponibile a molti chilometri di distanza? Il fatto che per millenni sia stato necessario recarsi fisicamente nei luoghi dell’arte e della cultura, non giustifica il fatto di non porsi, oggi, questa questione; attualmente, esistono gli strumenti tecnologici per superare questo limite che penalizza fortemente le persone che non possono raggiungere i luoghi in cui si svolgono concerti, conferenze e dibattiti, si possono visitare mostre e palazzi storici, si può accedere ad archivi e biblioteche, etc.
In particolare, nel capitolo del mio saggio dedicato alla progettazione ergonomica, descrivo la digitalizzazione come uno strumento molto utile e, in molti casi, indispensabile per ciò che definisco la “
progettazione della visita ” (o di ogni altra interazione con le istituzioni della cultura). Assumendo che una visita o un’interazione di qualunque tipo con contenuti culturali non inizi nel momento in cui si accede fisicamente o digitalmente in un luogo della cultura ma già molto prima, è necessario creare le condizioni perché la persona possa valutare preliminarmente l’utilità di un’attività rispetto a degli obiettivi da raggiungere (di apprendimento oppure di contatto con il bello o di qualità del tempo da trascorrere, ad
esempio), e possa pianificare la propria esperienza, definendo delle priorità, il tempo necessario, gli spazi da percorrere, il livello di approfondimento e ogni altro aspetto possa determinare la qualità complessiva dell’esperienza culturale.
Analogamente, la digitalizzazione del patrimonio culturale potrebbe essere sfruttata anche nel post-visita, assumendo che un’interazione culturale non si esaurisca nel momento dell’uscita dal luogo fisico o virtuale visitato e continui a fornire spunti di riflessione e approfondimento.
Per concludere, il termine rappresentativo per eccellenza: “compartecipazione”. Perché parliamo di compartecipazione culturale e di cosa si tratta?
“Compartecipazione” è un termine dal significato più esteso di “inclusione” e che io utilizzo nel testo per indicare, all’interno di un processo che conduca un’istituzione culturale a una fattiva inclusione e compartecipazione, l’ultima tappa che si concretizza con la realizzazione delle condizioni attraverso le quali ogni persona possa partecipare attivamente al processo di definizione e sviluppo dell’offerta culturale, ammettendo anche la partecipazione a livello decisionale.
In effetti, entrambi i termini, “inclusione” e “compartecipazione”, potrebbero rendersi non più necessari nel momento in cui, in ogni tappa che descrivo nel terzo Capitolo, si sviluppasse un’attività di
co-progettazione . Quest’altra parola chiave è il termine che io prediligo e che avrei usato al posto di “inclusione” e di “compartecipazione” che compaiono nel titolo; lo riporto, in effetti, nel sottotitolo che descrive in maniera molto più precisa il contenuto del mio testo.
Co-progettare vuol dire offrire a ogni persona la possibilità di fornire il proprio contributo, nel pieno rispetto dei ruoli e delle competenze altrui, per la realizzazione del bene comune e di ogni servizio, prodotto, attività che coinvolga due persone o più. Si tratta, dal mio punto di vista, dell’elemento di svolta per la costruzione della società del futuro, che possa risultare più equa e maggiormente integrata con l’ambiente che ci ospita e con le risorse disponibili.
Non a caso, si tratta di un termine che descrive il “come”, ovvero il processo che io propongo per realizzare ciò che comunemente viene definito “inclusivo” ma senza necessariamente precisare cosa si intenda e in cosa consista il carattere inclusivo di quanto ottenuto o prodotto.
Trovate “Inclusione e compartecipazione culturali” in libreria e negli store online.
Potete contattare l’autrice alla mail gabriellabiscice2@gmail.com per acquistare il libro o per ulteriori informazioni.
Asia Pichierri